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In questa intervista il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, parla della situazione “precaria e traballante” in cui si trova l’uomo postmoderno e delle chances del cristianesimo. La sfida educativa, l’esperienza elementare, le neuroscienze, il crocifisso e il riaccadere dell’avvenimento cristiano dentro tutti gli ambiti dell’esistenza.

 

 

A Brescia Benedetto XVI ha parlato di «emergenza educativa… come il 68». La Cei ha impegnato il prossimo decennio proprio su questo tema. Qual è la natura di questa emergenza?

 

Questa emergenza è dovuta al fatto che, soprattutto in Europa, si è in un certo senso interrotta la cura tra generazioni. È come quando in una catena si spezza un anello. Questo dato ci provoca a un ripensamento globale degli stili di vita propri dell’uomo europeo, perché la cura delle generazioni passa attraverso la “tradizione” di uno stile di vita buona. E la tradizione favorisce, come diceva Giovanni Paolo II, la scoperta che la nascita di ognuno di noi non è mai riducibile al puro inizio (biologia), ma implica sempre anche un’origine (genealogia). Mette in campo la catena delle generazioni che garantisce quell’esperienza compiuta di paternità-figliolanza senza la quale non si dà la persona con la sua capacità di esperienza e di cultura. Questa dimensione integrale della nascita è sottovalutata dall’uomo contemporaneo, soprattutto nella nostra area europea ed atlantica.

 

 

Nel Rapporto La sfida educativa, nel quale come Comitato del Progetto culturale dei Vescovi italiani avete sintetizzato le preoccupazioni della Chiesa, leggiamo che «per le società del passato l’educazione era un compito largamente condiviso; per la nostra essa sta diventando soprattutto una sfida». Come si è potuti arrivare a questa amara constatazione? E in che cosa consiste questa sfida?

 

Evidentemente non è possibile riassumere in poche righe l’insieme di fattori che ha portato a questo esito amaro. Certamente si possono evidenziare in proposito taluni limiti ed interrogativi aperti dalla modernità a cui il cosiddetto “postmoderno” non è ancora riuscito a dare riposta, ma vanno anche messi in linea di conto le trasformazioni del tutto inedite che da trent’anni sono in atto nella sfera dell’affettività, della nascita, della vita e della morte, ad opera soprattutto delle biotecnologie e delle neuroscienze. Mi capita spesso di paragonare l’uomo postmoderno a un pugile suonato che, incassato un forte colpo, continua il suo combattimento sul ring, ma in una situazione precaria, traballante. In che modo questa realtà ci sfida? E di che sfida si tratta? Si tratta di ritrovare le modalità adeguate per educare, per far passare attraverso costumi buoni uno stile di vita che sia in grado di rispondere al desiderio di felicità e libertà che caratterizza l’uomo di oggi. La prima di tali modalità è semplice, anche se indubbiamente ardua: è il porsi della persona dell’educatore. Ancora una volta il riflettore è puntato sull’adulto come colui che dà testimonianza alla verità che propone.

 

 

Il cristianesimo ha qualche chance di fronte a una situazione che sembra dominata dall’indifferenza, come se non ci fosse nulla in grado di suscitare un interesse per la realtà e per il futuro, specialmente tra i giovani?

 


 

Io penso che il cristianesimo abbia, oggi più che mai, delle grandi chances
Nel linguaggio comune attuale le due parole dominanti sono felicità e libertà. Così come nel tempo delle ideologie erano verità e giustizia. Ovviamente non si tratta di sottovalutare queste ultime, ma di partire da ciò che per l’uomo postmoderno sembra contare di più, cioè felicità e libertà.
Ora se noi leggiamo attentamente l’esperienza degli amici di Gesù, come il vangelo ce la testimonia, ci imbattiamo in queste parole del Signore: «Se vuoi essere compiuto – cioè felice -, vieni e seguimi»; e aggiunge: «Chi mi segue, sarà libero davvero». 
Gesù si propone come la via alla libertà e alla vita in quanto ha il potere di donare la felicità ed è capace di un appassionato e sconfinato amore per la libertà dell’uomo.

 

 

Oggi assistiamo a una frantumazione dell’umano senza precedenti; sembra quasi non sia più possibile rintracciare un principio unificatore dell’io. Come stare di fronte a questa umanità che oggi si mostra con questo organismo fragile e disarticolato? 

Edificando – attraverso adeguate comunità educanti, a partire dalla famiglia, dalla scuola, dall’intrapresa economica fino alla comunità cristiana – uomini e donne che ripropongono questa esperienza in termini personali e comunitari. La grande risorsa in proposito è l’incontro con Cristo. Come diceva Mons. Luigi Giussani, è l’incontro con un’ipotesi esistenziale esplicativa della realtà che permette che tutto concorra al bene. Un incontro che genera nell’io una capacità critica straordinaria: «Vagliate ogni cosa, trattenete ciò che è buono». In concreto si tratta di costruire ambiti in cui ogni persona possa fare questa esperienza.

 

 

Grazie alle enormi possibilità offerte dalla tecnoscienza si fa strada il progetto di ricostruire l’uomo sulla base del principio che egli è solo un agglomerato di materia. Ma questo basta a spiegare la natura dell’uomo e la nascita della coscienza? 

L’inquietante progetto citato è perseguito da non pochi cultori della tecnoscienza e si riferisce alle strabilianti scoperte che si vanno facendo nel campo della fisica, della biologia, delle neuroscienze, ma la domanda si ripropone. Come è possibile che parti di materia priva di coscienza producano coscienza? Personalmente, penso che una rigorosa pratica delle scienze sperimentali non possa negare l’esperienza elementare dell’uomo che, per quanto possa essere radicata nel bios o nel cervello, sfocia inesorabilmente in una dimensione che possiamo chiamare spirituale e che, pur essendo in profonda unità con la precedente, tuttavia la supera. A prova, secondo me, che l’unità duale anima-corpo, sostenuta da più di duemila anni di pensiero, è insuperabile.

 

 

Nella prolusione per l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Istituto Giovanni Paolo II, Lei si è domandato: «Esiste un terreno comune da cui partire, nel rigoroso rispetto di ciò che è fede e quindi teologia e di ciò che è oggetto del sapere delle neuroscienze, per verificare quanta strada si può fare insieme?». Qual è stata la sua risposta? 
 

 

La mia risposta è affermativa: è il terreno dell’esperienza morale elementare. Gli stessi cultori delle neuroscienze parlano di “morale prima della morale”, per dire – come sostiene uno dei più famosi, Gazzaniga – che “il nostro cervello vuole credere”. Non so se domani si riuscirà a dimostrare che la mente è riconducibile al cervello, ma so che, in ogni caso, l’esperienza morale elementare, per quanto possa avere la sua origine nei meccanismi neuronali del cervello, ultimamente li trascende. Li trascende proprio perché mette in campo il senso religioso.

 

 

Tanti cristiani soffrono un dualismo tra fede e vita, come la fede non fosse più in grado di mostrare la sua portata di verità e di bene nella realtà quotidiana (studio, lavoro, affetti). Cosa può vincere questo dualismo?

Da dove ripartire per ricostituire un soggetto cristiano unito? Qui ritorniamo a quanto rilevato in precedenza: dato che nessuno si educa da sé – il discorso sull’auto-educazione è un discorso banale -, è necessario che qualcuno che già vive questa esperienza di unità si prenda cura dell’educando che gli è affidato. E questo generalmente può avvenire solo dentro comunità vitali. Per noi cristiani l’unità non è un traguardo da conquistare, ma il dono di un’Origine (torniamo alla prima risposta) da riconoscere.

 

 

Perché secondo lei la strada del ritorno alla “esperienza elementare” (quella propria di ogni persona quando affronta le domande fondamentali della vita) dovrebbe essere una risorsa per affrontare la situazione dell’uomo di oggi? 

Perché l’esperienza elementare supera ogni complessità. Questo è molto importante. 
Come hanno mostrato bene Mons. Giussani ne Il rischio educativo, o Woytjla in Persona e Atto, o von Balthasar in Gloria, l’esperienza elementare è assolutamente inaffondabile. Io la paragono a quello che a volte si può vedere in primavera in città, passando vicino a un’area dismessa in cui qualche vecchia costruzione è stata demolita e non si è ancora riedificato, quando spuntano qua e là, tra i detriti, dei fili d’erba. Ecco, l’esperienza elementare è come quei fili d’erba: per quanto possa essere soffocata è insopprimibile, rispunta sempre, non la si può sradicare.

 

 

La recente sentenza sui crocifissi nelle scuole ha suscitato la reazione scandalizzata della maggioranza del popolo italiano, addirittura l’84% secondo un sondaggio del Corriere della Sera. Questo dato significa qualcosa per lei?

 

 

 

Significa molto per me. Non sono affatto d’accordo con quanti lo sottostimano, perché non riconoscono con oggettività una chiara volontà del popolo che deve essere rispettata. Ma è fin troppo ovvio che questo dato da solo è destinato a decrescere. 
Non ci si può limitare a questo, che pur è una confortante occasione per la riscoperta del potente significato del Crocifisso per la cultura mondiale, ma ci si deve anche (e molto di più) interrogare sul bisogno di testimoni vitali del Crocifisso risorto e vivo come Salvatore, come Redentore, come compagnia guidata al destino dell’uomo. Il bisogno della testimonianza cristiana.

 

 

Molti di coloro che si sono pronunciati a favore del crocifisso hanno parlato di difesa della nostra tradizione culturale e sociale, di simbolo universale di fratellanza. Pochi hanno colto un altro livello della questione, che sta sotto l’alternativa “crocifisso sì, crocifisso no”: che cos’è il cristianesimo oggi?

Il cristianesimo oggi è quello di sempre: l’inaudito avvenimento di Dio che viene incontro all’uomo, facendosi uno come noi, con un’umiltà così potente da permettere alla nostra presuntuosa libertà finita di crocifiggerlo. Uno che ci accompagna nel cammino, perché ci ha detto: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Uno che rende possibile verificare, nella propria fragile umanità, la potente affermazione di San Paolo: “Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio”. È una qualità di vita diversa su questa terra, perché radicata nella paternità amante del Dio Uno e Trino che ci ha donato Suo Figlio e che, per la potenza dello Spirito Santo, genera la Chiesa e le comunità cristiane, dove si può fare concretamente esperienza di tutto questo, vivendo intensamente fin da ora gli affetti, il lavoro e il riposo.

 

 

A quali condizioni può accadere oggi la nascita di quella “creatura nuova” che è il cristiano – cioè un protagonista nuovo sulla scena del mondo – di cui parlò don Giussani nella lunga intervista che Le concesse nel 1987?

Mi limito ad aggiungere un aspetto a quanto rilevato nelle risposte precedenti: il bisogno primario è che si possa rivivere l’esperienza di Andrea e Giovanni. Un giorno, mentre stavano con il Battista, furono da lui invitati ad andare a conoscere Gesù che passava dall’altra parte del Giordano. I due si misero a seguirlo e fecero la potente scoperta che descrive il dinamismo dell’esperienza cristiana: incontrare, andare, vedere, dimorare, comunicare. 
Questi verbi possono tradurre in pratica la fisionomia della creatura nuova.

 

 

Quali possibilità ha l’annuncio cristiano in un mondo che, per dirla con T.S. Eliot, avendo voltato le spalle alla Chiesa, «avanza all’indietro, progressivamente»? Detta in altri termini: come un cristiano di oggi può comunicare agli altri la propria identità?

Lo può se sta nel reale fino in fondo e a 360 gradi, dentro tutti gli ambienti dell’umana esistenza, come colui che avendo avuto la grazia straordinaria di un incontro che gli permette di dare del tu a Cristo, lo comunica in tutta semplicità. Il resto è conseguenza. Non servono strategie e non servono progetti.

 

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