Quando, un paio di settimane fa, il cardinale Angelo Bagnasco lesse la parte della prolusione al Consiglio Permanente della Cei dedicata allinfernale momento politico-giudiziario del nostro Paese, fu tutto un approvare e un aderire.
Parole giuste, parole illuminanti, chiedono approfondimento e riflessione, impongono un ripensamento, sospingono a un cambiamento, è ora di mutare non solo i toni, ma anche la sostanza Fu questo il tenore unanime dei commenti, luno o laltro arricchiti degli ormai immancabili concetti di bene comune, responsabilità civile, sfida morale, guai alle strumentalizzazioni, una autorità morale che parla alla coscienza di tutti e così via.
Quel paragrafo di 35 nitide e profonde righe sembrava destinato, nelle prime reazioni, a costituire la base di una riscossa, di un rilancio. Ma poche ore dopo, il prezioso palinsesto di una Italia desiderosa di qualcosa daltro veniva già cancellato e riscritto. Incombevano i talk show, le dichiarazioni di agenzia, le prime pagine dei giornali.
I media hanno fame di titoli e vince chi la spara più grossa. E così, quellaltro e alto punto di vista, quel giudizio foriero di un essere diversi qui e ora, veniva presto ricacciato nel limbo dei principi morali, nel ghetto degli ideali che sarebbe-bello-poterli-realizzare-ma-la-realtà-è-unaltra-cosa.
Non è colpa della stampa, sia ben chiaro. La stampa fa parte del sistema (parola sessantottina quantaltre mai) e il sistema è fatto così: il cielo (delle verità, della coscienza, del cuore umano) non centra con la terra (delle decisioni pratiche, del potere, del governo). Oppure anche: il cielo non basta, non è sufficiente, non è completo; e poiché occorre stare coi piedi per terra la congiunzione tra i due mondi si dissolve e si dilegua.
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