Da tempo un’ ondata di nostalgia percorre l’ Italia che legge e che scrive e che guarda perlopiù a sinistra: per antonomasia l’ Italia degli intellettuali. È una nostalgia, uno struggente riandare al passato, che s’ insinua ogni giorno in mille discorsi, che traspare da mille scritture, unitamente, come si capisce, all’ immancabile deprecazione per il presente. Si tratta di uno stato d’ animo tenace che però quasi sempre si manifesta ancora in modo sottaciuto e per accenni, quasi prevalesse in chi lo vive il timore d’ incarnare l’ antico stereotipo nazionale del «si stava meglio quando si stava peggio» o forse, ancora di più, l’ imbarazzo di dover in qualche modo ammettere una sconfitta di portata storica. Così c’ è voluto il coraggio di un vecchio leone della cultura di sinistra, reduce da mille battaglie, come Alberto Asor Rosa, per dare finalmente forma e corpo a questo stato d’ animo. Lo ha fatto con la sua «intervista sugli intellettuali» curata da Simonetta Fiori e pubblicata qualche tempo fa da Laterza con il titolo Il grande silenzio (pp. 179, 12). Un libro che tutto sommato ha avuto però una scarsa eco, a riprova di quanto a sinistra sia tuttora abbastanza impopolare affrontare certi argomenti, e che al tempo stesso dimostra, con i tanti dubbi che suscita, quanto sia difficile per la sinistra medesima, qui rappresentata da una delle sue voci più prestigiose, dare una spiegazione convincente di ciò che è successo. Che è stato né più né meno che la cancellazione di un intero mondo. In Italia, ormai «non c’ è più la classe operaia, non c’ è più la borghesia, non ci sono più i maîtres à penser», annota Asor Rosa, ci sono solo un «onnivoro presente» e «la nostra presente sciagura». Che è facile immaginare in che cosa, anzi in chi, innanzitutto consista: in Berlusconi. «Da tutti i punti di vista (corsivo mio) il berlusconismo è peggio del fascismo», scrive l’ autore. Esso, aggiunge, è «il prodotto finale e consequenziale di una lunga decadenza – l’ involuzione del sistema liberal-democratico – cui nessuno per trent’ anni ha saputo offrire uno sbocco politico-istituzionale in positivo», nonché di «un diffuso degrado morale». Completano questo panorama già non troppo allegro del nostro Paese la «frammentazione e dispersione prodotte dalla macchina internettiana», «la dissoluzione del vecchio impianto umanistico della conoscenza», «l’ equiparazione in un magma indistinto di fascisti e antifascisti, partigiani e repubblichini», e quant’ altro. Almeno nella Penisola, insomma, la storia non è andata affatto come avrebbe dovuto andare, ha preso una direzione radicalmente funesta, anche se solo una decina d’ anni fa, in un libro scritto dallo stesso Asor Rosa dopo la vittoria elettorale della sinistra del 1996 (La sinistra alla prova. Considerazioni sul ventennio 1976-1996, Einaudi) nulla lo lasciava presagire. Allora, infatti, pur tra non poche osservazioni critiche spirava in quelle pagine un certo speranzoso ottimismo ben esemplato dal giudizio su un luogo topico della crisi italiana: «Bassolino, a Napoli – scriveva in quel tempo Asor Rosa – ha dimostrato che nessuna impresa può considerarsi impossibile quando ci siano le idee, la volontà e una buona squadra (…); ha indicato una strada al vecchio ceto dirigente di sinistra (…): quella del governo cittadino in cui la democrazia non consiste né nell’ applicazione di un sistema formale di leggi né nella creazione pur che sia di uno schieramento di forze maggioritario, bensì nella costruzione di un progetto che nasce dai bisogni reali della gente e dalla chiarezza delle prospettive ideali» (pp. 225-6). Ma perché allora le cose sono poi andate come sono andate? Che cosa non ha funzionato nella nostra storia, politica e non solo? Ci sono stati errori? Cose non fatte e non capite da chi avrebbe dovuto e potuto farle e capirle? Si tratta di domande (ed eventualmente di risposte) tanto cruciali quanto ovvie. Eppure invano se ne cercherebbe traccia nell’ intervista di Asor Rosa. Il passato che egli ci consegna è il suo passato di intellettuale di sinistra, eguale per molti aspetti a quello di tanti altri, ma al quale, ci fa capire, non c’ è proprio nulla da obiettare o da chiedere. Al quale egli per primo non trova nulla da obiettare, da rivedere, da correggere. Sul quale non mette conto alcuno di interrogarsi. Alla domanda della Fiori, infatti, se per esempio «ripensando a quella esperienza (dei "Quaderni rossi" e degli anni Sessanta) egli starebbe ancora tra i contestatori, tra gli "estremisti"», l’ intervistato risponde infastidito che la «storia retrospettiva è un genere che (lo) persuade poco e non (lo) appassiona». Proprio rifiutando disinvoltamente la «storia retrospettiva» (ma ne esiste qualcuna che non lo sia?), Asor Rosa ha però modo di conseguire un obiettivo importante: e cioè organizzare una narrazione a proprio uso e consumo delle vicende politico-ideologiche italiane, nella quale le sue varie posizioni nel corso dei decenni (peraltro condivise da altri, da molti altri, come è noto) non sono state forse sempre le più plausibili e fondate, questo magari no, ma comunque non sia mai che possano dirsi radicalmente sbagliate o tanto meno portatrici di qualche effetto nocivo. Ancora una volta, per il tramite di Asor Rosa, insomma, la sinistra proclama la propria eterna innocenza. La storia d’ Italia è andata come non doveva andare? Per cercarne le cause si guardi altrove, per favore, non certo dalle sue parti. Al pari, sospetto, di molti suoi compagni di fede, Asor Rosa così non rinnega nulla. A cominciare dall’ antica avversione per la cultura liberaldemocratica: «bella, bellissima» osserva con irrisione, se non fosse che «le sue rappresentanze politiche – ricorda scandalizzato – sedevano al governo accanto alla Democrazia cristiana, e questo ci sembrava un’ offesa al senso comune oltre che all’ etica politica più rigorosa» (invece sedere accanto a Stalin o Kruscev gli sembrava eticamente irreprensibile, bisogna dedurne). Tanto meno trova accettabile ancora oggi la cultura riformista: «Il riformismo è prevalentemente un modo di intervenire sulle cose esistenti, modificandole nella misura in cui questo appare opportuno e, soprattutto, possibile» (laddove invece è chiaro che le cose bisognerebbe cercare di cambiarle «nella misura dell’ impossibile»). Paradossalmente, la rovina presente, invece di suggerire al nostro autore un esame spietato del passato, e magari di non salvare nulla, gli suggerisce l’ esatto contrario: il tendenziale salvataggio di tutto. Naturalmente di tutto ciò che in qualunque modo si riconduca alla sua vicenda personale e/o a quella della sinistra: da Aldo Moro, ampiamente lodato, a Enrico Berlinguer, «alla sua lungimirante visione strategica», al «compromesso storico», definito «l’ ultima grande invenzione della politica italiana». Il punto è che Asor Rosa (anche qui in numerosa compagnia, credo) si dimostra tuttora incapace, non dico di abbandonare, ma neppure di prendere le distanze da quello che è stato il mito ideologico dominante in almeno due o tre generazioni di intellettuali italiani di sinistra (e della sinistra in genere, naturalmente). Il mito ricorrente, inestinguibile, e di cui ancora oggi rivendica il senso, dell’ «ipotesi di trasformazione». Verso dove e per fare che cosa? Con quali attori sociali concreti? Entro quale contesto internazionale? Oggi, così come ieri, come sempre, non si sa e non importa saperlo. L’ importante, per le donne e gli uomini di lettere, è essere contro, radicalmente contro. Il nostro autore, infatti, è sì convinto che gli intellettuali possano esistere ed avere un senso, in realtà, solo nella civiltà borghese capitalistica. Ma ci fa capire chiaramente che essi sono degni di tal nome solo se, come lui ha fatto, s’ impegnano poi a coltivare l’ altra faccia della summenzionata «ipotesi di trasformazione»: vale a dire la «promessa comunista». «La promessa comunista – egli ricorda con nostalgia autobiografica – ci apriva un orizzonte di cambiamento, la liberaldemocrazia no» (naturalmente non è dato leggere neppure una parola sulla verosimiglianza della «promessa» e sulla realtà dell’ «orizzonte» in questione). «Eravamo dei marxisti conseguenti – afferma a proposito del già ricordato periodo dei "Quaderni rossi" – noncuranti peraltro delle nostre azioni. Certo, inseguivamo un progetto "inverosimile". Ma nel campo dei fenomeni intellettuali "inverosimile" non corrisponde automaticamente a "sbagliato"»: «non è l’ errore commesso che caratterizza il senso dell’ esperienza, piuttosto il fatto di averla compiuta». Segue a questa dichiarazione che definirei di «attualismo» intellettuale, e da cui traspare una certa pretesa d’ impunità, il sorprendente interrogativo dal tono civettuolo: «Sono impudente?». Abbastanza, direi. Ma la cosa peggiore è che l’ impudenza rischia di cancellare la sola cosa che alla fine conta, la sola cosa che storicamente ha contato, e cioè «gli errori commessi». Viceversa, acquistando miracolosamente un’ improbabile verginità, la realtà politica della sinistra nell’ ultimo mezzo secolo scompare dietro l’ ego intellettuale del professor Asor Rosa. Un capitolo di storia italiana, nel cui solco ancora ci muoviamo, rimane così sostanzialmente inspiegato e inspiegabile. Il capitolo, voglio dire, rappresentato dal peculiarissimo esito distorto (innanzitutto politicamente distorto) che da noi ha avuto l’ avvento della modernità democratica per effetto della radicata presenza di tradizioni ideologico-politiche e di organizzazioni sociali, in primis quelle facenti capo alla tradizione comunista. Le une e le altre – una volta esaurito verso gli anni Settanta il loro compito originario, per cui erano state pensate e impiantate – sono divenute rapidamente, nei fatti, vivaio e protezione di corporativismi di ogni tipo, di assemblearismi, di localismi, di soggettività pretenziose in nome dei propri "diritti", di una perdurante assenza di spirito civico. Asor Rosa, insomma, non riesce minimamente a fare i conti con lo sviluppo reale della società italiana, a suo modo «democratico», che sta dietro il berlusconismo; con i fenomeni negativi ma profondi e di lungo periodo che esso rivela in tutto il corpo sociale del Paese, non soltanto a destra, e che non s’ iscrivono affatto sotto un univoco segno di destra, come a lui piace invece credere. Allorché, per esempio, attribuisce solamente all’ homo novus berlusconiano la colpa «di aver tagliato le nostre radici storiche»: senza accorgersi che ormai è a tutta l’ Italia «moderna» che non gliene importa più nulla del suo passato. La prova a mio giudizio più evidente dell’ abbaglio in cui incorre l’ analisi di Asor Rosa quando tratta della realtà dell’ Italia «democratica» attuale sta in ciò che egli scrive della scuola. Dove emerge, non da ultimo, la sua totale dipendenza da un alquanto patetico wishful thinking che scambia per «la scuola» quella che è in realtà, al massimo, una schiera più o meno folta d’ insegnanti convenzionalmente de sinistra. La scuola, ci viene assicurato, sarebbe «l’ ultima frontiera» dell’ antiberlusconismo: «le sue strutture, i suoi docenti, i suoi libri di testo rimangono saldamente ancorati alla tradizione storica italiana. L’ homo novus italico – plasmato dai Grandi Fratelli e dalle lusinghe della "civiltà montante" – s’ imbatte qui in un grosso ostacolo». C’ è da non credere ai propri occhi ma è scritto proprio così. Un’ istituzione che tutti i confronti internazionali indicano come gravemente malata; dove pur a dispetto dell’ eroismo di tanti singoli docenti, ormai regna una babele di saperi frantumati, senza direzione e senza anima; dove si tocca con mano il disastro antropologico che incombe sulle nuove generazioni; proprio l’ istituzione dove, in certo senso, la democrazia italiana celebra quotidianamente il proprio lutto storico, è additata come l’ ultima ridotta di fronte alla barbarie. Mi auguro proprio che così non sia. O che, almeno, ce ne siano altre di ridotte; in caso contrario i barbari possono essere sicuri di avere già la vittoria in tasca. RIPRODUZIONE RISERVATA Per Asor Rosa un intero mondo è stato cancellato. In Italia ormai non c’ è più la classe operaia, non c’ è più la borghesia, non ci sono i maestri di pensiero, ci sono soltanto un onnivoro presente e la nostra presente sciagura Oltre ad Aldo Moro, è ampiamente lodato il segretario del Pci Enrico Berlinguer per la sua «lungimirante visione strategica» e per la strategia del compromesso storico, definito «l’ ultima grande invenzione della politica italiana» L’ autore Nato a Roma nel 1942, Ernesto Galli della Loggia è ordinario di Storia contemporanea ed editorialista del «Corriere». Tra le sue opere: «Il mondo contemporaneo» (Il Mulino), «La morte della patria» (Laterza), «L’ identità italiana» (Il Mulino). Nel 2009 ha pubblicato «Confini» (Rizzoli), scritto insieme al cardinale Camillo Ruini Prima Repubblica I libri e i dv Sulle vicende della Prima Repubblica ci sono opere a più mani: la «Storia dell’ Italia repubblicana» diretta da Francesco Barbagallo (Einaudi) e due volumi («La Repubblica. 1943-1963» e «L’ Italia contemporanea. Dal 1963 a oggi») della «Storia d’ Italia» a cura di Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto (Laterza). Nell’ ambito di una «Storia d’ Italia» più vasta rientrano anche «La Seconda guerra mondiale e la Repubblica» di Simona Colarizi e «La Repubblica dal 1958 al 1992» di Piero Craveri, editi dalla Utet. Altri saggi di rilievo: «La Repubblica dei partiti» di Pietro Scoppola (Il Mulino), «Storia dell’ Italia repubblicana» di Silvio Lanaro (Marsilio), «Dieci perché sulla Repubblica» di Piero Melograni (Rizzoli), «Il Paese mancato» di Guido Crainz (Donzelli), «L’ Italia repubblicana» di Francesco Barbagallo (Carocci). Per quanto riguarda il settore audiovisivo, da segnalare i sei dvd che compongono la «Storia della Prima Repubblica» di Paolo Mieli (De Agostini)
Corriere della sera 31 Gennaio 2010