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All’Europa oggi serve avere una difesa comune e una politica sull’immigrazione comune. E poi: maggiore attenzione al sociale, alla famiglia e alle Pmi.

Vi riporto la mia intervista su ilsussidiario.net

“Stiamo vivendo un momento di passaggio che non permette a nessuno di guardare ciò che succede dal balcone e di fronte alla proposta di una candidatura ho risposto sì. E’ una scelta di impegno che è la naturale evoluzione della mia esperienza personale, amministrativa e politica: non cambio il mondo da solo, è vero, ma in questo frangente non si può non impegnarsi in prima persona”. Così ho risposto a Marco Biscella giornalista de Ilssussidiario.net spiegando le ragioni della mia scelta per provare a cambiare un’Europa che sembra sempre più lontana dalle esigenze e dai problemi reali delle famiglie, delle imprese e dei cittadini europei.

E quali sono i punti salienti della sua idea di Europa?

Prendiamo atto del fatto positivo che l’Europa c’è e ha aiutato l’Italia a crescere, a risolvere tanti problemi, altrimenti sarebbe morta. In secondo luogo, l’Europa è nata da uno slancio, dalla visione dei padri fondatori, non a caso tutti e tre cattolici, che dopo due guerre distruttive e un secolo e mezzo di divisioni e conflitti all’interno dell’Europa hanno voluto scommettere con forza sulla pace. L’Europa nasce dal desiderio di pace. E quel che è successo qualche settimana fa a Londonderry deve farci riflettere: testimonia che dove si comincia a parlare di divisioni, si torna di nuovo a sparare.

Questo è l’ideale che anima il suo impegno. Ma, in concreto, che cosa vorrebbe da un’Europa cambiata?

Tre priorità. A partire da una maggiore attenzione ai temi sociali, di cui l’Europa si occupa poco. La questione demografica, per esempio, è decisiva: se fra 30 anni la Nigeria da sola avrà più abitanti della Ue, questo deve interrogarci sul nostro futuro, perché una società vecchia è statica e priva di slancio. Serve, quindi, una politica che sostenga la natalità e per far questo non si può non passare dal sostegno alla famiglia, la cellula costituiva di ogni società. Anche in Italia, anziché varare il reddito di cittadinanza, sarebbe più utile perseguire una seria politica degli assegni famigliari a chi ha più figli oppure vive da solo in condizioni difficili oppure si trova ad accudire in casa delle persone anziane. E’ un tema centrale.

Il secondo tema programmatico?

Riconoscere le esperienze positive in atto. Le ideologie sono morte e prendere decisioni solo sull’onda dell’ultimo sondaggio quotidiano effettuato non è una soluzione efficace. Bisogna invece far sì che se nel sociale, nella cultura o nell’economia le persone si mettono insieme per risolvere un bisogno, per affrontare un problema o per creare un’opportunità, la politica, come atteggiamento, non assuma una posizione schematica, ma sappia riconoscere e sostenere ciò che di positivo si muove ed emerge dal basso. E se sono esperienze paradigmatiche, vanno valorizzate e devono diventare un modello di best practice per tutti gli altri.

E la terza priorità?

A livello macro, più squisitamente politico, non può esistere che due Paesi europei si facciano la guerra in Libia. Quindi, serve una politica estera comune, una difesa comune e una politica sull’immigrazione comune. Il Trattato di Dublino va superato perché è sbagliato: chi sbarca in Italia, entra in Europa.

Oggi l’Europa è considerata soprattutto una tecnocrazia burocratica troppo opprimente. Che cosa si può fare per alleggerire il giogo, riavvicinando l’Europa ai cittadini europei?

Conosco la burocrazia europea, non è semplice, ma quella italiana è anche peggio, ben più complessa e inefficiente. Se riuscissimo comunque a semplificare quella europea e a ricostruire da zero quella italiana raggiungeremmo un bel risultato.

E come riavvicinare i cittadini alla Ue?

Prendiamo i fondi europei. Spesso, avendo l’obiettivo di uniformare, come nel caso delle normative tecniche, in Europa si tende a creare, giustamente, degli standard. Ma l’Europa non è come gli Stati Uniti o la Cina, è composta da Paesi che hanno sì una storia comune, ma esperienze e sensibilità molto diverse. Serve quindi maggiore flessibilità, maggiore capacità di capire le differenze e di valorizzarle per il bene comune.

A proposito di fondi europei, l’Italia non è molto brava a utilizzarli. Colpa nostra o delle regole europee?

Ho ricoperto per anni il ruolo di assessore in Regione Lombardia allo Sviluppo economico, dove avevamo in dote dalla Ue 300 milioni. La Lombardia è stata la regione più virtuosa nel loro utilizzo, visto che li ha impegnati quasi tutti. Se qualcuno non è stato invece capace di spenderli, è giusto che si interroghi, anziché lamentarsi. Resta però un punto: sui fondi diretti, quelli non assegnati ma che devi saper andare a prendere, l’Italia è molto indietro. Bisogna saper costruire il supporto adeguato.

Tra i punti del suo programma figura il potenziamento del ruolo del Parlamento europeo. In che direzione?

Il Parlamento europeo è l’unico organismo direttamente eletto dai cittadini, quindi è giusto dargli maggiori poteri. Oggi gioca un ruolo importante perché non c’è direttiva Ue che possa essere approvata senza il parere favorevole dell’Europarlamento, che ha anche la facoltà di modificare le direttive. Ma occorre far di più: come i Parlamenti nazionali o i Consigli regionali, deve avere la possibilità di essere promotore di norme europee.

Ancora più interessante l’obiettivo di dare alla Bce un ruolo più attivo a favore della crescita e dello sviluppo…

La Bce, grazie al Qe di Mario Draghi e dimostrando una notevole flessibilità, ha svolto un’attività cruciale: ha salvato la sostenibilità dell’Europa, evitando che alcuni Paesi andassero in default. Siccome però per troppo tempo la Bce è stata il guardiano di un’austerity che oggi è sempre più una gabbia che impedisce di muoversi, dopo aver salvaguardato la stabilità monetaria e soccorso molti debiti pubblici, è venuto il momento che diventi sempre più motore vero di sviluppo, garantendo maggiore accesso al credito, soprattutto alle piccole imprese italiane, che sono il nerbo della nostra struttura produttiva.

Come intende perseguire questi due obiettivi, che non sono certo facili da concretizzare?

C’è un’azione politica da portare avanti, utilizzando il Ppe, gruppo al quale appartiene Forza Italia, per far passare la riforma dell’Europa.

I sovranismi sembrano avere il vento in poppa, ma il progetto europeo è nato all’insegna della condivisione. Come rilanciarlo oggi?

Serve un nuovo slancio e lo slancio arriva quando non si è dominati dalla paura, che pure esiste e va capita, ma dalla speranza. Bisogna lavorare, e questo compito non spetta solo alla politica, perché si riaccenda la speranza come sentimento prevalente, portando alla ribalta le esperienze buone, dando una prospettiva positiva e mostrando che lavorando insieme si può andare avanti e migliorare. E poi è anche una questione di convenienza.

In che senso?

Nessuno si muove se non per una convenienza, che sia immediata o più a medio termine. Ciò che va bene per una famiglia, per un’impresa, per il lavoro, per i figli è che ci sia una convergenza, un andare d’accordo, un’apertura maggiore dei mercati. Oggi il 60% del nostro export è destinato ai Paesi Ue, se ci fossero confini, dazi, divisioni, ci daremmo la zappa sui piedi. Ci conviene andare d’accordo e stare in Europa.

L’Italia oggi rischia l’isolamento?

Per contrastare il divide et impera che oggi è interesse della Cina, della Russia e talvolta purtroppo anche degli Stati Uniti, c’è una sola risposta efficace: restare uniti. Il che non significa certo fare accordi con i piccoli movimenti sovranisti sparsi in tutta Europa, questo non fa bene all’Italia. Noi oggi dobbiamo allearci anche con i piccoli Paesi, ma soprattutto con i grandi. Francesi e tedeschi non vanno d’accordo perché si vogliono bene, ma perché gli conviene. Ed essendo noi tra i Paesi fondatori della Ue e una delle economie più importanti dell’Unione, dobbiamo essere in prima fila per cambiare al meglio l’Europa, anche nel nostro interesse.

Che ruolo può giocare un cattolico nel Parlamento europeo?

Oggi è importante ricordare qual è il punto di partenza: il riconoscimento del valore della persona, non come individuo, ma come soggetto che sta in relazione con gli altri. Un cattolico in politica deve innanzitutto facilitare il riconoscimento e la costruzione di legami stabili, forti, perché questo è sempre stato l’elemento decisivo che ha permesso all’Europa di ripartire dopo ogni crisi.

 

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