In un tempo in cui ogni aspetto della vita è andato drammaticamente separandosi dal legame profondo con l’Eterno o al più si è trasformato in vago sentimentalismo religioso, la fede solida, concreta, romana e apostolica di Giuseppe Camadini richiama ogni momento alla radice profonda di un senso religioso che pur abbiamo conosciuto nei nostri padri e nelle nostre madri, nei nostri sacerdoti, in tanti testimoni che ormai non sono più con noi.
È questa la fede che ha costruito opere, ha consolato il popolo, ha giudicato il mondo, amandolo. Libera da ogni intellettualismo, da ogni sincretismo, da ogni filosofismo, essa si presentava come una certezza naturale che non poteva non affascinare, non sollevare, non rendere liberi.
Ed è proprio la testimonianza della libertà il secondo dono che conservo di Giuseppe Camadini. Quante volte di fronte alle difficoltà legate alla conduzione del nostro giornale, che amava e riteneva uno strumento decisivo di civiltà, mi ha esortato: «Sia sempre libero». Questa libertà è divenuta sia in termini istituzionali sia in termini personali, un punto di riferimento, una prospettiva irrinunciabile. È la libertà del popolo di Dio, realtà che Camadini amava in modo particolare guardandone la grandezza e insieme il senso della propria limitatezza. È la libertà di chi è libero nella fedeltà profonda alla propria chiamata, alla propria storia, alla propria identità, tanto più propria perché non esclusiva, possessiva, referenziale, ma radicata nella storia.
Fede e libertà nella fedeltà generano opere. È stata, quella di Giuseppe Camadini, un’operosità di altissimo livello. La sua era una spiritualità che – sulla scorta del grande insegnamento della Pace e del cattolicesimo bresciano – doveva trovare sbocco nelle cose, nell’azione: l’esempio di Giuseppe Tovini era sempre presente ad indicare una strada, a testimoniare che la fede può muovere le montagne. Non v’è dubbio: chi lo ha conosciuto e frequentato, ha ricevuto un dono prezioso.
Soprattutto i giovani che Camadini ha amato e sostenuto. Ascoltando negli ultimi mesi le sue parole e quel malinconico sentore di «dover passar via» e di dover lasciare sempre più forte la testimonianza di una vita ricca perché incardinata nella grande, e talvolta dolorosa, storia della Chiesa, si aveva l’impressione che volesse lanciare a tutti una sfida: la sfida di prendere un testimone e portarlo avanti, farlo fruttare in un tempo sempre più difficile e incomprensibile.
Oggi che il «passar via» si è compiuto, umanamente ci sentiamo tutti più soli. Nella prospettiva che Giuseppe Camadini ci ha testimoniato ed ha voluto lasciarci, ci sentiamo tutti un poco più forti.
Giacomo Scanzi